Archivi del mese: dicembre 2003

quattro passi innanz…

quattro passi innanzi a me. E sono al muro.

poi quattro dietro di me. Ancora al muro.

Palermo. Carcere dell’ Ucciardone.

almeno quando è estate aprono il “blindato” . il portellone d’acciaio vorrei che cigolasse di più. come nei film.

così restano solo le sbarre e puoi vedere la cella di fronte, ed in parte una laterale. come in un gioco di specchi dalla prima all’ultima si può sapere cosa accade.

il primo passo all’inizio del corridoio e già dal fondo riecheggia il mio nome.

talìa cu arrivò, lu Malacarni. Arreri ca?

cui Malacarni lu Ranni o lu Nicu?

ora che il Grande è sotto due metri di terra io sono semplicemente il Malacarne.

quattro passi davanti a me. la parete trasuda grasso umano nero . macchia di sangue della testata di quello che c’era prima di me.

due  di lato: sono nell’angolo col cesso.  poi perdo il conto dei mezzi passi. e sono al centro della cella.

lo ripeto: non uscirò mai più da queste stanze?

faccio domanda subito per avere libri dalla biblioteca. se almeno ci fosse il refettorio in comune come nei film .

invece mangio merda guardando la faccia del pedofilo che ho per compagno di cella.

quattro passi. la parete ha memoria dell’uomo.

quattro passi.  Ã¨ ossessione che tracima dalla brocca. sono nell’angolo con il fornellino elettrico. chè se hai due soldi compri pasta e sugo e magari schifi la merda che ti danno.

tre quarti d’ora d’aria, poi altri tre quarti.

ma poi quando hai i libri non sai che fartene. la gusti come un di più , guardi i carcerieri e sorridi come uno che ha un piano di evasione infallibile. carezzo la copertina.

INFALLIBILE.

cinque minuti per la doccia Malaca’ non ti addormentare. Rido in faccia alla guardia carceriera perchè so che è morta.

lui non lo sa ma qualcuno nell’altra sezione , quella dove stanno i Grossi, ha firmato una condanna infallibile.

infallibile.

Poi viene il Ciuaua , che è un padre di famiglia, che chiude il portellone della sezione Tre ed apre alcune celle, cu parra abbusca. Non dovrebbe, ma sa a chi aprire, io passo dalla mia a quella di “me cuscino”, che è dentro per spaccio. e già lì mi dice il suo compagno: malacà affucalu a stu malatu !

parla del mio compagno di cella, uno che tocca i bambini. qui lo vogliono morto.

io pianto un porcoddio perchè questo è il terzo televisore che non funziona e poi chiedo all’avvocato perchè cazzo mi hanno messo in cella con questo tipo se io ho furtato una cazzata e sarò fuori tra cinque mesi.

a malaca’ (in relatà mi chiama per cognome) sanno che frequenti  posti d’incontro omosessuali.

e che c’entro con sto malato?

inutile ragionare.

quando viene Marlboro mi offre mezza sigaretta, io non gliela chiedo mai. ma a lui le regalano e offre a destra e manca, è sempre sorriddente e mette musica allegra e canticchia come il Ciuaua (chiamato così per via della canzone).

poi “me cuscino” fa un bordello perchè non ci mettono in cella insieme, mica siamo fratelli che per legge non si può .

niente da fare ci mettono però in due celle prospicienti.

quando viene Ciuaua mi apre le sbarre e vado a giocare a carte con “mio cugino” che in realtà non mi vien niente. non so se mi spiego.

ed il momento più bello è nel distacco, ci abbracciamo discreti e aspettiamo che sia il turno di Ciuaua per riabbracciarci.

poi finisce che stiamo a guardarci in silenzio dalle sbarre. perchè le parole finiscono subito quando sei dentro insieme alle cose.

le parole insieme alle cose quando sei dentro spariscono.

è una fortuna tutto sommato quando è estate, si scoppia di caldo , ma almeno aprono il portellone e tu cedi al mistero di parlare con gli sguardi. ci guardiamo in silenzio per un tempo che Fuori mi sembrerebbe inimmaginabile.

ma fuori ci sono le cose.

quattro passi avanti. prendo il cuscino e mimo una danza cercando il sonno.

poi quando mio “cugino” esce e passa ai domiciliari grazie all’indultino io stringo i pugni e sorrido.

ni viremu fora mi urla dal fondo del corridoio.

ci vediamo fuori.

il mio compagno di stanza cerca un impossibile contatto. poi dice : almeno avessi un computer, con internet stai a chiacchiaerare con gente di fuori. appena passo ai domiciliari mi faccio la dsl.

io non so ancora che cazzo sia questa cosa. e allora me lo spiega. non parliamo mai del motivo per cui è qui.

poi mi viene a trovare “me cuscinu” . almeno lui. diciamo tre cose che lui sa:  come va, cosa mangio, come sto veramente. ed altre tre che sa pure , di cosa ho bisogno: due lire, sigarette, biancheria.

meglio di mia madre.

mia madre viene avvolta nel suo eterno lutto . ha un volto di madonna vecchissimo che ha scalato la Collina.

chiede anche lei ma già sa di che ha bisogno uno che sta dentro.

di stare fuori. perchè i ladri veri stanno al governo. ed i mafiosi pure.

viene una seconda volta a portarmi il richiesto e poi spedisce due lettere senza grammatica ma con dei soldi.

I domiciliari li chiedo all’ultimo domicilio, non a casa di lei.

non da te , madre, perchè nel tuo Calvario io non ho più posto ormai.

perdonami.

oppure cancellami.

con me non puoi fermarti a metà.

quattro passi davanti a me. di nuovo al muro.

due indietro, sono al centro della stanza, dove nessuno può raggiungermi.

chiudo gli occhi. nessuno può raggingermi ora.

 cancellami.

oppure

perdonami.

Ed ecco è sempre not…

Ed ecco è sempre notte in istituto.

Le teste spariscono al di sotto delle coltri , avvolti in un sudario da cui risorgeremo.

Nei letti immobili dentro il dormitorio.

Non uscirò mai più da queste stanze? forse la verità è che non voglio?

(Come tutte le verità ha un forte punto interrogativo).

Palermo – (Parigi?) Tutte le notti in Istituto.

Gli occhi dimorano al buio fiutano le distanze. Perché siamo nati morti .

O genet-icamente modificati.

Il carceriere è in fondo al pozzo.

Così chiamiamo la fine del corridoio umido , le cui stanze , in cui dormono i sorveglianti , ci sono proibite.

Mezz’ora di silenzio, poi soffi fischi sibili soffocati. Da giungla all’imbrunire.

Respiri di chi dorme e di chi veglia. Secondo il rito tra i morti i bambini risorgono.

Scivoliamo piano. Un piede nudo a terra. Gelido. Trasalire. Dita che ritentano .

e giù a terra acquattato. In agguato. Dal fondo della camerata , se facesse capolino il sorvegliante, non sospetterebbe nulla.

I prigionieri sanno come camuffare cuscini e lenzuola sotto le coperte.

I letti sembrano pieni. Abitati dai nostri simulacri.

Pochi complici scelti sotto i letti. Accendiamo sigarette sottili come paglie sfilate dal camice dell’inserviente.

Escogitiamo piani di evasione complicatissimi e millimetrati. Tutti destinati al fallimento.

Noi tramiamo nel buio la luce perché nasca l’alba ancora. Mentre i vigliacchi dormono.

Incantiamo la notte con barbari tatuaggi. Inflitti con aghi anneriti dall’accendino. Chi ne possiede uno qua dentro è guardato con rispetto. Aghi intinti nell’inchiostro , infitti sino a fare sanguinare. Io tatuo una data che un giorno cancellerò con ammoniaca e fuoco. E la mia caviglia sinistra ancora duole quando cambia il tempo.

Abbiamo tatuaggi che sanguinano in posti nascosti, dove i carcerieri non sospettano nemmeno. Sulle piante dei piedi. Sotto le ascelle e nell’inguine. Che tanto se sono arrivati a vederti bene lì poi non lo vanno a dire.

In seno alla comunità segreta un’altra ancora. Dopo la sigaretta i piani farraginosi ed i tatuaggi mai terminati , i tre puntini della mala per lo più, una data, un rozzo disegno. Poi la seconda comunità di eletti. Siamo solo in tre , per un po’ , poi diventeremo quattro. Gergo e segni. Tramiamo nel buio. Esploriamo il corpo, non parliamo di fuggire dalla gabbia, perché noi sappiamo. La gabbia ci verrà dietro ovunque. Così il marchio.

Non usciremo mai più da queste stanze. Ci tocchiamo nel buio. Esplorazioni, perquisizioni interne. I nostri delitti di sangue e di seme messi a nudo. Furti di una parola che non avremo diritto a dire.

Beviamo i nostri umori. Patti di sangue, chiaro come una lunga agonia. Patti di seme. Come una lunga estasi. Siamo fratelli, geneticamente modificati.

inutile fare l'alber…

inutile fare l’albero quest’anno

non c’è niente da mettere sotto.

Parola di madre. L’ultimo natale. Palermo 198?

nulla da festeggiare, io so bene quel che rimane.

nulla da festeggiare. dovrei tacere per sempre.

rimuovere le macerie e seppellirle.

rimuovere le macerie.

ma poi mi avvolgo in una trama inessenziale e prendo fiato.

respiro forte aria di grandine stamattina e ricomincio a scavare.

l’ultimo natale, ed ecco ritorna la voce di mia madre:

fare l’albero quest’anno? non c’è niente da mettere sotto, e non c’è niente da festeggiare.

mia madre che sosta in una terra di nessuno da mesi, dal quel 28 agosto.

poi tatuai quella data sulla caviglia da ragazzino con aghi ed inchiostro sotto un letto di istituto, alla luce degli accendini.

ma questa è un’altra storia.

prendo fiato.

poi cancellai col fuoco quella data sulla caviglia ed ora ho un segno sulla pelle, una cicatrice su uno strato di pelle sottile che fa male quando cambia il tempo.

mia madre, dicevo, una voce che viene da lontano, mi parla sempre meno, allora, ha poco da comunicare. ha un cartello conficcato nella mente: attenzione questa è zona rimozione.

io ho sei anni e lei dice soltanto : da festeggiare, niente, niente da mettere sotto, niente albero.

Io forse ho imparato quel sorriso di taglio, che ora è il mio ghigno, in quel momento.

il sorriso per niente.

sono ancora un bambino : sei anni.

poi viene la vigilia. io non posso farne a meno. prendo dallo sgabuzzino la scatola degli addobbi, lei non se ne accorge.

ostinato , la santa ostinazione dei bambini o dei martiri , prendo dalla scatola le sfere di luce di plastica sottile, capelli d’angelo stracciati, trovo un’altra scatola promiscua di luci , tiro fuori una scopa spelacchiata verdastra conficcata a testa in giù in una base di plastica: il mio albero, lo porto a spalla, come una croce, in salotto.

mia madre è in cucina , io sento che cuoce nel forno qualcosa, forse non è panettone, non sono dolci, forse sono solo castagne.

va bene lo stesso. sorrido di niente.

bisogna accontentarsi, imparare il prima possibile [chepoi\dinuovosaremo\arsi/nell’inesoratonero(catarsi)]

dalle scatole promiscue estraggo fili devastati , alcune palle multicolore, comincio ad appendere alle fronde.

rami straziati cui appendo senza criterio quello che trovo, così come lo tiro via dalle scatole polverose.

io sorrido, seienne, splendente.

nelle sfere d’argento colgo il riflesso del mondo , è più morbido sulla surperficie curva , deforma la foto sul tavolino lì accanto all’albero, c’è un uomo – mio padre – che si ingigantisce, sembra di potergli correre incontro,

che possa corrergli

in braccio.

un rumore afono continuo alle mie spalle, un rantolo che cerca di uscire da un petto. e cresce.

è mia made che fissa l’albero con occhi esorbitati, muove le labbra non so cosa dica.

infine urla e lacrima: che cosa stai facendo , che cosa stai facendo.

stride e piange e dice una cosa che allora , non posso capire, impiegherò degli anni a capire:

tuo padre è ancora caldo nella tomba e tu fai l’albero: non c’è niente da festeggiare, niente. levalo – urla -levalo!

ha un dito che accusa di omicidio l’alberello sintetico che

trema e si stringe nelle spalle e vorrebbe scomparire o morire.

e non può. vorrei e non posso.

(attenzione: questa è zona Rimozione).

succede qualcosa.

(non sostare: zona Rimozione).

l’albero è a terra. ci sono macerie . la stanza stessa è tutta rotta.

gli addobbi hanno raggiunto il lampadario, la foto di mio padre ed il vaso di fiori di campo davanti sono a terra da qualche parte, il vetro è ovunque.

io ho sangue dalle mani , pezzi di plastica sottile confitti nei palmi . (thewoundsinyourhandsneverseemtoheal)

tremo e mi stringo nelle spalle e vorrei riapparire. lei non mi vede.

mia madre è a terra, occhi esorbitati. e non mi vede. qualcuno suona alla porta insistente.

qualcuno suona alla porta ma non viene per salvarci.

avranno sentito le urla ed il fracasso , i vicini.

io non ricordo chi è andato ad aprire la porta.

questa è zona rimozione.

Poi tu sei stato un bambino cattivo vennero angeli neri ed ora tu muori all’inferno. .

io no ho ragione di …

io no ho ragione di essere se non tuo testimone.

Eneide. la frattura irrisolta.

Tu solo mi puoi ferire ormai. dico a me stesso.

Ma la ferita non è a mia misura. e neanche questo dolore inaridito.

questa è la lettera che non ti ho mai spedito. perchè certe parole non hanno fissa dimora. come Io:

Enea, tu non ricordi le nostre luci fioche davanti le vetrine del negozio di lampade a Colonia.

Tu ridevi allora: Malacarne come minchia parli, che sono ste luci foche?

poi ti sono piaciute insieme alla parola. perchè le parole ti hanno dato un’altra vista.

Colonia. Enea, tu cucini bistecche giganti per me e Cristian che non le vediamo spesso di questi tempi, non va bene da due settimane. non va sempre bene.

Per due anni ho fatto il manovale, dici, ma ora mio fratello mette su un Kiosk andrò a lavorare da lui.

e per due anni , da quando tuo padre è andato via con quella troia, tu hai mantenuto tua madre e tua sorella.

darei la vita per lei. mi tagli con quattro parole. e io ti credo.

Malacarne, io ti voglio bene, ma non mi piace la vita che fate tu e Cristian, prova un’altra cosa, se poi perdi il lavoro qui ti aiuta la soziel Amt, mica è come da noi.

da Noi, la nostra terra trema, da dimenticare.

poi la vita si è fatta gingillo del tuo cuore.

e nel tuo petto ho eretto un tempio di dolore, fratello.

Colonia a settembre già piove.

siamo all’Altstadt, locale sguaiato di Stricher , come chiamano qui le marchette.

insieme alle parole viene un’altra vista.

Enea arrivi quando già Cristian mi ha avvertito:

“suo fratello l’ha pescato in un bar di froci, l’ha pestato.

sua madre l’ha buttato fuori. dopo che si era spaccato il culo sulle impalcature per camparle a lei e alla sorella. Quella piange sempre. ma che può farci ha dodici anni”.

darei la mia vita per mia sorella , mi dicevi.

Cristian continua:”ora non gli serve più , hanno messo su un Kiosk il fratello e la cognata. va bene a loro , sti bastardi , ora me lo sono portato al Puff a Duesserdorf, lavora bene, vogliamo andare via da qui , forse Londra”.

Enea , appena ci siamo abbracciati: ti ricordi, mi dici, le luci fioche nel negozio di lampade qui vicino? le guardavamo sempre prima di andare al Chains il venerdì.

allora ti ricordi, gran figlio di puttana.

adesso le luci non ci sono più.

Enea, mi pagava sempre il biglietto dello Strassenbahn , io non lo facevo mai, perchè tanto non ti beccano a Colonia, se sei sveglio.

occhi traslucidi.

non mi piace la vita che fai, mi diceva, come per scusarsi di qualcosa, forse del fatto che non stessimo insieme.

malgrado quello che era successo sotto i portici notturni davanti un fottuto negozio di lampade con luci fioche.

ecco gli occhi di prima , Enea, di quando neanche t’importava sapere se eri frocio. quando nessuno aveva deciso per te una volta per tutte. la tua faccia.

il negozio c’è ancora, ma sono cambiate tutte le luci.

tutte le

luci.

  è la stagion…

 

è la stagione buona quest’ inferno?

in cima a ogni notturno desiderio. raccolgo rimembranze fatte a pezzi.

frammenti per passare l’inverno . (Al confine con il Belgio)

voilà ma saison à l’ Enfer , trés dégradée , sans coup de revolver. abîme en abîme

stazione senza nome, o non ricordo. su strade ferrate d’incanto, noi possiamo vedere con un solo occhio in due.

we can view our chaos in motion.

we can see our chaos in motion.

c’ è un cielo che piove a strapiombo e tira vento.

lo senti che grida stanotte i nostri nomi? chiede Cédric.

mais tu es où maintenant , qui va écouter cette nuit tes sanglots sanglants?

qui parle? chi parla ? chiedo come se non riconoscessi la tua voce

ta voix, ta voix adolescente, j’aimerais bien l’écouter encore une fois, pour oublier toutes les voix inutiles qui vont détruire mon coeur.

dépuis toujour, cette lourde décadence.

ascoltiamo in cuffia Dead can Dance.

on va où maintenant , mais la véritable question était une autre: on est où maintenat, à quelle heure de la nuit?

in the kingdom of blind the one-eyed are king.

we can view our chaos in motion.

nel vagone di ruggine sul binario morto. e fiati sporchi in un’alba bianchissima di nevischio , nebbia attorno.

a tre passi da me già scompari , mentre esci per pisciare dal vagone abbandonato.

a tre passi da te io scompaio.

poi troviamo un bidone di latta e pisciamo lì finchè il puzzo non diviene insopportabile.

l’inferno è questo freddo, non fidatevi della letteratura medievale, L’INFERNO DIOCANE E’ GHIACCIO.

fossi stato un po’ più uomo da salvarti, Cédric. invece. chissà se sei in un posto caldo adesso. gettiamo sale sul silenzio crocifisso. brucia e cicatrizza e scioglie il ghiaccio.

il vento dei treni nella métro di Lille, non possiamo sentirlo certo, ci sono schermi di vetro per impedire che ci si butti sulle rotaie. colletta buona di feste e non ricordo, io non ricordo il colore del tuo maglione la prima volta.

la bottiglia di birra in due. giochiamo a biglie sui gradi in Place Charles de Gaule come ragazzini ignari della morsa gelida di inverno.

all’hotel dell’Orsa le stelle avevano un fruscio sommesso

chissà se il tuo corpo ha raggiunto la tua mente adesso,

giocavamo a biglie sui gradini, le braccia tue viola rosse di melograno.

distrutte di merda in vena. la tua catena divina.

forse non fui tanto uomo da salvarti, avevo diciannove anni. perchè dovevo salvare me stesso.

posso vedere il cielo oltre la nebbia, posso vedere il mare, posso vedere la danza di morte del vento.

posso vedere il caos in movimento

cammino nella nebbia, tu resti nel vagone e non vuoi muoverti da lì. passerà questa nebbia , non temere, Cèdric.

bloccati a pochi chilometri da Tournai, io sono in una nebbia che si dirada a misura che l’incanto scema. e trovo un passaggio su un camion per Arras, ora mi è chiara la meta. non tornerò a prenderti .

Paris. non era mai stata altra la meta segreta.

i can see my chaos in motion.

je puis regarder  mon chaos en mouvement.

 

tu neanche mi ascolt…

tu neanche mi ascolti. muove il bicchiere sul tavolo di marmo nero.

Guardo la scia umida. sgocciola sul ripiano.

Guardie e ladri. (Questa è la fine di Niente).

pianta i freni. tutto questo è già successo.

sempre le solite cose. in questa fottuta vita. le solite cose si ripetono. finchè non faranno più male.

Non posso stare qui, mi vedono, sbrigati sali.

Faccia-da-sbirro.

la solita scena infinita, oscena vita.

incazzato faccia-da-sbirro , che fine hai fatto?

sono stato a casa, ma poi mica sono cazzi tuoi.

spiattella parole tipo: Noi, andiamo a vedere un cinema , saremmo potuti andare a cena insieme. fare delle cose.

porc’odio lì per lì non capito la domanda. disabitudine.

noi?

poi rimangia tutto. è tormentato, scava un abisso morbido in cui io e lui siamo un dovremmo essere un NOI.

tutte stronzate. ma forse questo abisso non è a mia misura.

invece ci ha il cazzo sempre duro . anche lui. questa è l’unica verità che conosco.

duro e puro o morto. nient’altro.

Alterato, accenna e nega un NOI. sente qualcosa, dice.

ma di che parli? senti gli spiriti?

fanculo, sento delle cose per te.

ma poi si incidenta con la lingua, non riesce a capire che prova, cerca le prove tipo:

da bambino mica giocavo con le bambole. Io.

manco io , coglione, ma forse è che nessuno ce le ha date.

prova, prova e porcoddio provi sempre e non indossi mai un sentimento direttamente.

prova e non indossa mai nessuna croce. aspetti di sapere che cosa sei , e smetti di essere.

e allora meglio scopare. ma non sono più sicuro che sia ancora scopare questo.

alla fine mi vomita la verità: trasferito.

e allora? che mi importa a me? mica starò a casa a piangere tre notti, io mica sono gay.

chiedo cosa ha combinato perchè è strano un allontanamento dopo che la raccomandazione potente che ha avuto l’ha avvicinato a casa dopo pochi anni di servizio.

ma mica me lo dice a me. proprio a me. ha ragione. non so neanche perchè ho chiesto.

e tu M. (in realtà mi chiama per nome) , che stai a fare qui? mica hai un lavoro.

stringo i pugni, sta per ridire quel

pronuciare, mimare

simulare quel

noi.

(vorrei che almeno TU lo sostenessi quel NOI così inclusivo almeno finchè mi chiuderò la porta alle spalle, mi farebbe bene ).

muove il bicchiere sul tavolo: è combattutto, non mi sta proponendo niente, io non accetterei comunque vulpesetuva

il bicchiere lascia una scia nella polvere e sgocciola. unisco le gocce le une alle altre.

tu manco mi ascolti .

spalmo le gocce sul ripiano, cosa vuoi che ti dica? ci conosciamo manco da un mese. e poi chi sei tu?

un ragazzo scappato alle macerie assoldato dal potere. ed io manco questo.

siamo oltre . irraggiungibili. forse non pervenuti.

questa è la fine di un bel NIENTE. non c’è nulla da sentire.

quando finisce anche il niente. la mia atroce voglia di vivere insorge e mi inganna e mi dice:

questo è solo l’inizio

e le cose già non so…

e le cose già non sono più.

Firenze, prima dei Venti.

Campana a morto, sublime, in canti orfici IO la sento.

scorre l’Arno, l’averno    fra gli archi dei ponti.  Multicolori e stanchi.

la mattina di primavera. alle Cascine. 

l’alba orfica infine mi uccide. la grazia adolescente dei battoni. L’alba stinge ingiallisce i volti devastati di puttane che un tempo erano maschi.

belletto sbavato tragico dei pagliacci.

tramata d’alba la bellezza della luna pallidissima.

questa bambina agonizzante.

tre adolescenti puttani dondolano le loro grazie precoci.

si ferma un’auto. un travestito insieme ad un uomo biondo e massiccio. mi chiede se sono nuovo. se lavoro.

sorride al mio sì, e riparte.

ti va di venire con  noi ? chiede pochi minuti dopo, quando ripassa sul mercedes nero, se ben ricordo. è stato anni fa. prima che iniziassero i Venti.

anni violenti. Il mio cliente dice il trave vuol fare in tre.

ha un sorriso di Chimera. io sono Eva, mi soffia fra le labbra gonfie.

è quasi l’alba , non ho un posto dove andare. contavo di procedere in treno verso Roma o milano? doveva essere Milano, quel tumore sulla pianura.

In auto abbasso il finestrino. per non addormentarmi , due giorni in treno. andiamo in centro.

l’Arno, di fremiti e drappi.

festeggia il suo passato.

che si fugge tuttavia.

in camera di Eva. pizzi e poster Botticelliani. incorniciati in plastica rosa o fucsia. non ricordo. sbiadisce.

alla fine : io e il cliente bagniamo di seme il lenzuolo. Paga Eva e me e va via.

io crollo in un sonno di sogni traslucidi.

dopo due giorni e due notti di veglia. didomannonv’è

Nel letto di Eva:

e già le cose non sono  più.

in testa ho l’eco di campana a morto che accompagna la mia vita dentro il sogno.

Sublime.

giglio di potenza. fiorenza.   

 

facciamo il numerino…

facciamo il numerino, io , lui ed il cliente.

Christian , magro e chiaro di pelle , efebico, occhi verdi. capelli cortissimi e neri.

il sorriso certo è un poco rovinato, dai denti devitalizzati sibila l’accento calabrese: ecco un particolare molto narrativo.

Invece questa è una foto segnaletica.

invece questo è un appello.

ricordo quella marchetta in due  mentre parlo con lui al telefono, ieri,

dove minchia eri finito?

a Colonia ci siamo persi di vista, lui è tornato a Duesseldorf a lavorare nel Puff con Enea.

io e Nico siamo saliti ad Amsterdam.

parlavamo di domani con Christian, mai di futuro,

il domani non è il futuro, è solo un giorno come ieri con due cicatrici da sopravvissuto in più.

Ho perso il cellulare, per fortuna ho trovato il tuo numero in una agenda.

sono stato a Londra con Enea. lui sta lì, a me è andata male.

è una città cattiva quella, ora dove sei

a Valle Giulia. tra piazza Repubblica e Valle Giulia,

il perno di questa vita violenta.

Questo è il mio dannato appello.

non c’ho più soldi Malacà, c’hai il numero di quell’albanese, come si chiamava, Roberto?

c’ha la donna in casa, forse si sposa pure, non lo sento da mesi.

mi sono finiti i soldi, richiamo.

questo è un porcodio di appello.

se mai TU lo dovessi riconoscere:

pelle chiara, magro, occhi verdi , efebico, questa la sua foto segnaletica.

devi essere gentile con lui.

domani pure tu potresti avere le nostre stesse cicatrici.

due in più di ieri.

notti magnacce in cu…

notti magnacce in cui senza fine sanguiniamo

mi accartoccio in un lenzuolo.

nelle pieghe della carne nutro piaghe impronunciabili

perchè non posso dimenticare che la mia vita è solo una ferita volgare.

Colonia. Notte fonda.

dall’angolo del locale osservo i movimenti dei bicchieri . se solo chiudo gli occhi per davvero posso vedere il tempo.

bicchieri poco schiumosi di birra. ein Koelsch bitte che scivola in gola balsamo giallo piscio.

ich und Christian wohnen zusammen , e cazzo ripeti Malacà , due parole le devi pure imparare, ich komme aus Sizilien,

ma tanto muto o loquace a questi froci non gli fotte una minchia di me se non la minchia.

ed è inutile negarlo. non vi fotte che questo perchè siete delle merde.

ed è la sola cosa che potete capire. e la sola che avrete: occhi e mani di consumo.

il tipo ci vuole entrambi , me e Christian pronti a fare un numerino , fuori dallo kneipen sostano i taxi , gli autisti fumano e parlano piano ed aspettano anche loro che i nostri clienti li paghino . una corsa verso case o alberghi , la mia vita è questo viaggio per giungere ad avvolgermi fra le lenzuola.

il sudore stamperà la mia orma in controluce. sono risorto da vivo o sono nato morto? oppure sono solo impazzito.

Ulrich il proprietario dell’Altstadt segna sul sottobicchiere di cartone una tacca per ogni birra ordinata. i tassisti ci aspettano fuori e sorridono quando passiamo la sera.

siamo una s.p.a.

cielo putrefatto, in…

cielo putrefatto, inalbami di luce stanca.

io sono astratto.

e guardami diocane: sono l’abisso.

Palermo, prima dell’alba.

Exit, sabato sera che incombe come un presagio. TU apri le labbra e sorridi , dimentichi la catena, intaschi i soldi di papà e dici : i o s o n o v i v o .

invece menti . sei solo una copia fotostatica.

ingollo intrugli al whisky e bollicine e tutto il mondo comincia a curvare e persino sta miusic da gay bar mi sembra più tollerabile. quasi umana.

fiondami in vena alcool perchè sterilizzi la mia ferita nascosta.

La notte è mia gemella, credimi e trema.

ho labbra che si piegano come un coltello a serramanico in un aborto di sorriso. non ho scelto io la m a s c h e r a che porto , il mio aborto di cuore:

tutto questo , non lo ignoro, è solo la mia prigione.

quando perdo il conto dei drink sono in una pianura nebulosa. qui sto bene. fottiti diomondo. e muori perchè io possa godere la tua rovina.

il ciccione di fronte a me continua ad offrirmi intrugli alchemici , con sguardo sgomento del barista nanetto che non è abituato a vedersi sciorinare mance. in questo convegno di sciampiste: cinque euro di mancia a ordinazione non le hanno mai viste all’Exit. sorrido col senno di chi ha lavorato al Valentino. oltre la border line del bordello, du bord de l’eau.

la mer qui monte dans mon sang est l’autre visage de la mort. dovrò parlare di te, rue S. Denis? Marais, avvolto in un paletot ideale, sotto natale buono di caldaroste rimemorate, in una Parigi puttana.

i miei occhi hanno visto troppi abissi.

spegnimi

cancellami

oppure adottami.

con me non puoi fermarti a metà.

il ciccione porta drink non richiesti alle mie labbra oppure sono le mie mani?

scisso e nero . esco davanti al locale , mi reggo solo perchè il tipo mi tiene.

non avevamo contrattato un cazzo di niente, non c’ avevo voglia di lavorare.

invece finisco di atterrare sopra un tavolo di assi marce nel piazzale dei matrimoni dentro il parco della Favorita,

sopra di me si staglia falbo il palazzo Utvegio, nell’ombra per scissione dagli alberi nascono ombre di uomini e so di che hanno bisogno queste creature di buio e silenzio appena nate: di un cazzo che le nutra.

ingorde.

vomito appena mi appoggio al tavolo , ma il ciccione non demorde, rovino sopra il tavolo . ho i calzoni alle caviglie.

questo è il mio corpo.

questo è un sabba o un ultima cena?

chiudo gli occhi e finalmente vedo:

accanto al ciccione lavora sul mio cazzo un tipo smisurato. capelli crespi lunghi e neri.

appena quest’ultimo è apparso, il ciccione si è inginocchiato ad adorargli il cazzo.

borbottano parole come un registratore rotto.

ingirumimusnocteetconsumimurigni

spalanco gli occhi. è davvero piegato sulla mia erezione. con un lungo cappotto , un manto da principe notturno sotto il quale il ciccione lavora. sborro e lui ingoia.

questo il mio seme

in sacrificio per voi.

vomito ancora.

spegnimi.

oppure ingoiami.

non puoi fermarti a metà

con me.