il buio che le tue mani seminano morfeo, indicano il cammino e sprofondo in un sonno senza sogni. dove quel che vedo è finalmente vero
Hopital St. Pierre.
L’anestesia.
l’oscurità si accinge ad accogliermi ed io sorrido alla Notte. il sonno riflette fedele la realtà del Niente
L’infermiera e la marionetta
Levo la mano contro la luce falba, là è forse una porta, vaga in trasparenza, un’ombra prende forma.
Immagino tracce di sangue su tutto il corpo, il mio ventre è squarciato sotto il sudario come mi svegliassi ectoplasmico da una autopsia.
Dal braccio i fili della flebo svettano verso il soffitto- e infine scopro che questi tubi salgono verso il buio e sbiadiscono sino a scomparire verso l’alto che sprofondano nel buio del tetto, nell’alto dei cieli, nell’alto dei cieli ed allora
io aspetto, io aspetto invano di scorgere la mano che tiene l’altro capo di questi fili che si prolungano sopra di me all’infinito.
all’infinito
Chi mi muove?
l’ombra si coagula. è un’infermiera, arriva, chiede se tutto vada bene, domando da bere
da bere agli assetati
sembra le dispiaccia davvero quando, per via dell’anestesia, mi dice che non può, ma che troverà qualcosa per darmi sollievo.
e sorride d’intesa,come ad un bambino cui si promette che se farà il bravo
Torna con un cubetto di ghiaccio in un bicchiere: soyez-sage, ne l’avale pas, che non l’inghiotta, che faccia il bravo, che mi bagni le labbra in questa spugna di aceto. e che le dica una parola dica solo una parola
peccato nel buio non abbia letto il suo nome, questo l’avrebbe salvata
L’infermiera trafora le stanze come l’ago incostante di una macchina da cucire a pedale, ma senza molto rumore, il suo ciabattare è discreto ed è un sollievo, in una notte fonda della vita sono sempre le tre e quarantacinque del mattino, l’ultimo che potrebbe occuparsi di te è andato a letto e tu soffri da solo in una stanza da cui non puoi uscire, immobile in un letto e nessuno ti ascolterà fino al mattino.
invece-infatti
l’infermiera si accosta- ha quegli occhiali da strabiopici che le rendono gli occhi immensi e sacri come uno sguardo di venere sul mondo e sembra che veda tutto dall’alto, che quegli occhiali siano telescopici, che veda i particolari le sfumature minute di questo tutto che è Niente, nella giusta dimensione. L’infermiera cambia la flebo, mi sussurra che è contro il dolore, che tutto andrà bene, e i suoi occhi si allargano ancora sino ad abbracciarmi in un paesaggio senza fine: vorrei anch’io quegli occhiali: sono sicuro che vedrei il mondo frantumato fatto solo di cose minute, non in questo grosso modo che è Niente.
I fili che mi legano al giorno sembrano collegati alla flebo anti-dolore, ma ormai io non lo ignoro, che più in alto, lassù dentro il buio, i tubi risalgono oltre il soffitto, e tutti i piani di questo ospedale del Regno, oltre la volta d’ozono, oltre le stelle fisse, all’infinito. e da lì mi muove una mano che è morta come un sole vecchio la cui luce si sparge ancora per tutto l’universo.
ma che sta per finire
(se solo tu venissi
apocalisse)
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