Archivi del mese: giugno 2006

L’arabo in me

II

 

a casa di Julie, cianfrusaglie impolverate, sul vassoio sopra il tavolino, lei spalmata sul divano come burro col suo beur raccattato chissà dove probabilmente un altro spacciatore, ognuno ha i suoi circuiti, mi dice, e io penso ai corti, alle corti dei miracoli ed i cortili in cui non sono cresciuto e solo quelli rimpiango.

Lei é un’altra sopravvissuta a tutto e solo per questo mi interessa il suo sessantottismo fatto negli ottanta, per ritrovarsi spalmata su un divano con un arabo che la tratta da puttana. 

mon copain lavora vicino casa tua , esclama Julie, in una sauna gay.

ah si’ , mi dice lui, lo "spad’quatr ur" come lui pronuncia la balzana grafica del logo della sauna che non compare pero’ sulla porta d’entrata, bianca e discreta, senza neanche una bandiera gay o simili, ma solo all’interno della sauna e nelle riviste, e chissà come lo sa lui, l’etero.

Lascia che ti dica una cosa, mon cousin, mi dice lui serrando la mano un breve istante e poi portando le dita al petto come usano fra loro:

aprire una sauna gay in pieno quartiere arabo é una provocazione;

la sauna é li’ da sette otto anni, rispondo, e poi scusa cugino, anche fare un quartire arabo nel centro della capitale d’europa  é una grossa provocazione.

sei razzista, mi fa lui

Julie accende una canna, comprende che la tenzione monta, ok les enfants on se calme, ci passiamo il petard scaccolandolo nel posacenere nervosamente finché ci si rimette a conversare tranquillamente quando mi chiede da che parte d’italia vengo , e chissà perché st’isola é rispettata, e lui mi dice: una volta era araba la sicilia lo sapevi, 

tra una cosa e l’altra:

 l’arabo in me

 il punico il greco il fenicio, l’araba fenice, il sisifo felice il francese il normanno il nord man il normale il suddista il sudario l’abcdario e soprattutto 

l’angelo dell’infinito niente    

sopra il manto di marmo che incornicia un caminetto murato una serie di sfere cromate sovrapposte, quando le aziono ruotano e vibrano e lei ride, perché nel mio giocherellale distratto con le sue suppellettili ho scambiato per un aleph il vibratore.

lo usi tu? chiedo

no é per un cliente, me lo ha regalato lui stesso.

 giurodidire:

                                                             (L’EQUATORE)

ecco appare nel suo jeans cavalli, cintura versace, borsa vuitton, tacchi dolci e gabbati, occhiali per schermare l’assenza di trucco e di inganni, la Vanesa, chiede vuoi un té

dico vabbé per cortesia e lei mette una tazza nel microonde

nel suo trivani senza quadri né mobilio a parte due divani un tavolo un letto e quattro sedie, cucina che sul foglio cartello affittasi veniva promessa iperaccessoriata per via del microonde immagino, ha come soprammobili solo borse da mille euro ciascuna, perché ha paura che la deportino e allora compra solo quel che puo’ portare a spalla, come fosse una duchessa di Baviera o una puttana guelfa nubile qualsiasi. 

 nel quartiere borghese dove si é istallata riceve coperta di un palto’ che vale più dell’affitto che paga comunque in natura al turco scassapalle che non le aggiusta il riscaldamento;  poi quanta bassa umanità sul materasso senza lenzuola  gettato a terra nella stanza che usa per lavorare.

ha desodoranti ambientali in ogni angolo mortuario, perché é pigra come un cactus e aspetta che una colombiana venga a farle le pulizie, e se non la sveglio io o un cliente o Pablo che le porta da mangiare non si alza dal letto prima delle quattro e poi che bacia il cuscino e si sprofonda se sola, invece dorme come una geisha tutta truccata e pettinata se ci ha qualcuno accanto o non dorme affatto, la adefesiosa

finge soltanto, chiude gli occhi da gatta  al mondo e pensa al patio di casa sua in guayaquil, a cosa puo’ ancora far costruire, una fontana, una piscina magari,  e cambiare i colori alle pareti di una casa che ha visto una volta sola, perché se esce dal belgio ora, non sa se e come tornare

senza documenti l’europa é una prigione, dalla quale si puo’ uscire e non entrare.

e suo fratello per telefono, lo stesso che la picchiava da piccolo, perché troppo effeminato, le dice di non preoccuparsi, che i lavori vanno bene, ma che il muratore vuole cento dollari per dipingere la cucina

io le chiedo quanto é il salario mensile medio in ecuador e lei mi dice cento-venti dollari americani

mi guarda e crede di sapere che cosa voglio dire, crede mi importi come si sta massacrando in strada per campare il bolide di suo fratello e la casa della madre e delle sorelle che hanno tutti  smesso di lavorare per occuparsi della costruzione del Regno, questo palazzo di tre piani e dieci stanze(ognuno con bagno in camera, come si usa in ecuador, mi avverte), in cui tutti andranno a vivere felici cent’anni di sole…

invece io mi chiedevo solo dov’é finito il sucre ecuadoriano (da bambino imparavo a memoria le bandiere le capitali e le monete di tutti i paesi, e da questi tre accidenti e una foto ogni tanto sui libri di geografia, io inventavo un pianeta che un giorno speravo potessi vivere, poi hanno cambiato tutte le carte geografiche e le monete e il pianeta che avevo inventato e il PIANETA CHE MI AVEVANO PROMESSO E’ MAI ARRIVATO

bastardi

tramare lucciole e farne lanterne, almeno potessi varcare anch’io questa soglia di corno, lungimirare il cielo, colmare abissi di pace con altra quiete, tornare ad essere

quanto cielo

quanto cielo adolescente,

io vorrei fra vecchie carte geografiche viaggiare accartorciato clandestino fra meridiani e parlalleli seguire una rotta sbagliata come sempre verso atlandidi sommerse  

vado verso altrove