Archivi del mese: luglio 2009

 

la notte piena fragante di stelle, essi vaniscono raminghi in un sospiro dietro il vetro appannato dal mio fiato.

ed é fulgida la volta nera-biancastra d’astri e nuvole grigio-arance sopra Londra. sopra Londra cupissima d’apocalisse, li vedi sbiadire sul predellino tragico mentre sul bus per Stanstead io mi stringo allo zainetto, mio unico bagaglio quasi vuoto,

quasi nudo lo stringo forte al petto

la mia casa.

Leo e Cristian si rimpiccioliscono, il corpo fragile d’angelo di Cristian tremulo di freddo sotto la giacchetta di nylon adidas degli anni ottanta, come mi ricorda giorni di settembre a Colonia davanti i bar di marchette a Neumarkt ed eravamo cosi’ giovani e stupendi, ossia cosi’ stupidi e stupiti, e poi  avevamo sempre ragione. Pieni di occhi lucciole ed era sempre mezzanotte e il primo abbraccio del giorno nuovo il primo minuto era per noi e sembrava Un Sempre.    

 Un Sempre dolce come eroina in vena, un Sempre falso che ti incatena all’effimero, e adesso solo segni putrefatti,  resta la cancrena del ricordo. 

il cielo sembrava promettere: ecco i primi minuti del giorno nuovo ecco é per voi ecco il  tributo, il dono

e noi muti accoglienti come un cesto di vimini intrecciati di frutti e fiori come puttani caravaggeschi ridevamo indolenti al sospetto del giorno nuovo

Leo cinge le spalle di Cristian e nel saluto io vedo un ultimo commiato senza speranza alcuna senza                                                                                 Leo non vuole che Cristian si prostituisca, l’ha tolto dal marciapiede per metterlo nella strada, a dormire fra i cartoni, poi io ed Enea gli troviamo un  lavoro in una pizzeria ma lui ci ha più soldi quando mendica, dice Leo, e Cristian dice io lo amo, anche se abbiamo fatto la fame e la vergogna la mattina la fila davanti la Caritas e la puzza antroce nelle camerate ma ora io conosco quella parola che noi marchette non siamo destinati a pronunciare ed io già non l’ignoro che non posso più salvarli da se stessi.                                                                      ora io li penso fra cumuli o in un prato e se solo io potessi

quanto cielo sopportare negro e fulmini di amore

che li possa trafiggere ancora  in luce estasi divina e devozione

per tanto amare

 Il fiore dell’inferno,

Sarà che é notte piena fra le mani e poi nel buio profondissimo lei sfiora tutti i contorni delle cose come fossero ULTIME e Definitive, ma effimere.

nel delirio bricoleur chirurgico degli anni novanta, le infilano aghi di amianto sottocute per riempire il vuoto dentro, é il silicone che l’ ha sfigurata, deturpata,

maledette travestite estetiste,

 poi gonfia e lacera di ulcere un dottore le aspira il possibile e ora ha un volto concavo convesso come un quadro di Bacon, liquido e folle come una maschera di umanità sopra la testa di un robot,

pare mickael jackson senza parrucca, dice maligna la Vanessa.

La chiamano l’addobbo dell’inferno.

ed ovviamente nessuno sa il suo vero nome, né lei si cura di chiamarsi in qualche modo

ad ogni cliente si presenta con un nome diverso, non che ne abbia molti di clienti, ma tant’é.

qualche camionista sonnolento qualche padre di famiglia e vecchio scapolone della Seine et Marne, che in vece di una capra ogni tanto si paga un essere umano profumato dozzinalmente, come dire la Francia Profonda.

La cacciarono dal Bois de Boulogne a Parigi, e nessuno la rimpiange, poche la ricordano, ma non la cacciarono perché rubava clienti, ma perché é cosi’ brutta da spaventarli.

maledette travestite pericolose,

e lei si apre una piazza al Bois de Ferrières, a Marne la Vallée, dove le principesse Disney la notte andavano a battere, vestite da biancaneve e cenerentole, uscendo dalle residenze per impiegati milleuristi dalle poche pretese e prospettive ma pieni di magia topoliniana. 

poi fornirono abiti di scena da restituire ogni giorno al costuming e la nuova generazione di cast member non ricorda più quell’epoca epica.

ed é rimasta sola , a volte raggiunta il sabato da travestite parigine in trasferta, in genere sue coetanee, ogni tanto litigano e si schiaffeggiano, poi bevono e ricordano altri tempi, cose che noi profani non possiamo comprendere, nei loro idiomi di vestali ch’ti, chissà quali segreti  

lei scheletrica rivestita dei feticci eterodossi: una calza smagliata al primo infrattarsi per consumare col cliente che vela un femore inguainato nella pelle flaccida, un tacco alto infangato su cui danza macabra e un reggiseno imbottito che copre i segni dell’espianto delle protesi.

prende la sua gamella mangia un po’ di pasta preparata il pomeriggio quando non ci sono macchine in giro,

 a volte due auto attendono nella piazzuola dove lei posteggia la sua pegeot sgangherata, a volte sono dentro dei figoni che potrebbero avere l’età dei suoi figli.

 Quando finisce lo spettacolo, lei smonta il suo apparato mette un camicione toglie la parrucca, mette tutto nel cofano, la larva di una farfalla cui hanno strappato le ali.

passeggia un po’ fra gli alberi  sfiora le foglie carezza i rami,

come fosse un’ultima volta prima di uscire di scena.

tornare nel suo inferno quotidiano forse davanti la tv come una suppellettile di ceramica: vuota dentro.

l’addobbo dell’inferno